Costanza, “elbana di nascita ma giramondo per vocazione”, ci racconta la sua esperienza nel Burkina Faso in missione umanitaria.
Sono a Ouagadougou da ormai più di mese e me ne aspettano quasi altri due.
Poco tempo per potermi ritenere una residente, troppo per sentirmi solo di passaggio.
Il Burkina Faso è un’esperienza che va fatta con consapevolezza.
Le attrattive turistiche sono poche, pochi animali, pochi monumenti, natura abbastanza monotona.
La vera, grande attrattiva, sono le persone. I loro occhi, i loro sorrisi e le loro risate.
Talmente irresistibili da riuscire a smuovere anche una persona fondamentalmente introversa come la sottoscritta.
Ma andiamo per ordine.
Sono arrivata a Ouaga il 17 gennaio e per i primi 10 giorni ho girato un po’ per il paese al seguito di un gruppo di toscani venuti qua per quello che viene chiamato “turismo umanitario”.
Si gira per visitare scuole, orfanotrofi, ospedali, pozzi e altre strutture che hanno una qualche funziona di aiuto sociale.
Un tour delle disgrazie, l’ho ribattezzato io.
Ci siamo spostati a est verso Zorgho e Koupela.
A sud fino a Leo, al confine con il Ghana, e poi a nord verso le moschee di Bani, Dori e Gorom Gorom, dove speravamo di vedere l’alba dalle dune del deserto ma la situazione geopolitica della zona ci ha bloccati.
In questi 10 giorni ho avuto un breve assaggio della vita nei villaggi.
Ho macinato chilometri di brousse. Ho osservato rapita i gesti quotidiani che questa gente si tramanda di generazione in generazione. Ho parlato con decine di bambini la lingua misteriosa dei giochi. Ho stretto centinaia di mani sudaticce e callose, e mille altre cose ancora.
Partito il gruppo sono rimasta io, con la mia “missione”: insegnare italiano a diversi gruppi di ragazzi e ragazze che per i motivi più vari hanno o avranno a che fare con il bel paese.
Lentamente comincio a conoscere Ouaga, che a primo impatto mi era sembrata un inferno in terra.
Sporca, inquinatissima, caotica e abitata da una popolazione che lotta ogni giorno per sopravvivere in condizioni ben peggiori di quelle dei villaggi (dove la vita è semplice ma più serena).
E tutto questo in effetti c’è, ma ogni giorno si scopre un pezzetto di verde che non si era visto prima, un teatro nascosto.
Prima di partire spero di avere l’occasione di andare a Bobo e a Banfora, che tutti mi consigliano, e probabilmente trascorrerò l’ultima settimana prima di partire in un villaggio a 40 km da Ouaga per fare un corso alle suore di una missione.
So benissimo che 3 mesi in Burkina Faso sono davvero pochi per poter pretendere di aver capito qualcosa dell’Africa, ma sicuramente un’esperienza del genere non può non cambiarti la prospettiva da cui guardare il proprio mondo e quello degli altri.